Mille sfumature tra normalità e patologia

sfumature

Le categorizzazioni dicotomiche fanno parte del nostro vivere: Bianco e Nero. Maschile e Femminile. Mente e Corpo. Vita e Morte. Destra e Sinistra. Oriente e Occidente. Pace e Guerra. Schiavitù e Libertà. Queste, giusto per citarne alcune, ma potrei continuare all’infinito.

Il pensiero dicotomico, come si evince dagli esempi, divide con un taglio netto la realtà, eliminandone la complessità, la mutevolezza ed ogni sua sfumatura: tende a schematizzare facendo distinzioni nette, rigide, stabili e riduce la complessità della realtà, delle persone e degli eventi a due sole categorie contrapposte. Questo, se per certi versi può essere molto rassicurante, dall’altro limita sia la capacità di leggere e capire la complessità del mondo, che non è sempre e solo o bianco o nero, sia la creatività e la quantità delle scelte che abbiamo a disposizione. Queste dicotomie rappresentano polarizzazioni estreme di fenomeni che in realtà fanno parte di un continuum e proprio lungo questo continuum, fra un polo e l’altro, troviamo un’area colma di sfumature complesse.

La psicologia è stata spesso ricondotta alla dicotomia Salute e Malattia, o se vogliamo dirla in un’accezione “più psicologica”, Normalità e Patologia e per altro fino a non molto tempo fa era ancora radicata l’idea che “dallo psicologo (soggetto normale) ci andassero solo i matti (soggetti patologici/anormali)”.

Ma…Chi decide cosa è patologico e cosa no? Chi stabilisce che un modo di vivere vada bene, mentre un altro risulta invece disfunzionale?

Queste domande aprono a molte riflessioni. Prima tra tutte quella relativa alla dicotomia oggettivo e soggettivo che implica anche il riflettere su cosa sia la realtà. La fisica quantistica ha dimostrato come un qualsiasi sistema non possa essere studiato a prescindere da chi lo osserva e quindi ha comprovato che è l’osservatore a creare la realtà che egli stesso osserva. Non esiste un mondo oggettivo e uguale per tutti. Esiste un mondo, certamente, ma ognuno di noi lo “legge” ed interpreta in modo strettamente soggettivo e personale, a partire da quel che egli è. Non voglio ora approfondire questo aspetto, che merita sicuramente una riflessione più ampia, tuttavia, l’ho introdotto brevemente per rimarcare che non si possono di certo eliminare i criteri “oggettivi”, attraverso i quali è possibile compiere una valutazione generale del funzionamento di una persona, ma credo che da qui si possa andare ben oltre.

Credo sia possibile uscire dall’incasellamento e dalle categorizzazioni per aprirsi invece alla conoscenza profonda e libera da preconcetti o pregiudizi, di chi abbiamo di fronte e di tutte le sue mille sfumature, privilegiando l’accettazione e l’accoglimento di ciò che ognuno di noi è.
Ci sono persone che si alzano regolarmente tutte le mattine, si recano al lavoro, tornano a casa e si prendono cura della famiglia. Persone che si costruiscono, che vivono un'esistenza regolare e priva di asperità. Tuttavia, occorre anche pensare che ci sono altrettante persone che vivono in modo diverso, anche con mille difficoltà, sofferenze e fatiche, ma non per questo vivono in modo sbagliato o anormale. Quello che è giusto per qualcuno può non esserlo per qualcun altro. Ognuno vive la propria vita a partire da quel che è e per come può.
Prendiamo ad esempio Giacomo Leopardi. Avremmo davvero fatto il meglio per lui, considerandolo patologico e “curando” la sua depressione? Permettendogli di uscire all'aperto, sposarsi, avere figli, così come il buon costume desiderava? Distruggendo la sua poesia disperata? O forse il meglio sarebbe stato il nostro, quello dei nostri principi dicotomici giusto/sbagliato?
Un altro esempio, Vincent Van Gogh. Avremmo fatto il suo bene se avessimo bloccato o ridotto l’impeto delle sue creazioni artistiche, che per altro rappresentano proprio lo specchio della sua condizione psichiatrica? Avremmo fatto il suo bene, agendo secondo categorie dicotomiche e privandolo della sua patologia, reprimendo così il suo spirito creativo?
Avremmo fatto il bene di entrambi se avessimo eliminato le loro sfumature uniche e soggettive e li avessimo considerati solo alla luce dell’“è normale o patologico?”. Alla luce di ciò credo fortemente che si debba imparare forse a pensare ad includere, nel senso di comprendere e non ad escludere, ossia allontanare, scartare ed estromettere ciò che rappresenta qualcosa di “diverso” rispetto a noi.

Il punto centrale del mio lavoro terapeutico, e parlo a titolo personale, non è mai stato decidere chi è normale e chi è patologico, o rendere normale qualcosa di anormale. La normalità è relativa: ciò che è normale per il ragno è il caos per la mosca.
Il mio compito, come psicoterapeuta, è quello di aiutare il paziente a capire le ragioni della sua sofferenza, quelle ragioni che l’hanno portato a chiedermi aiuto, al di là dei criteri oggettivi che valutano il suo funzionamento. Il mio compito è quello di avere cura di chi mi chiede aiuto, di aiutare il soggetto a comprendere quali possono essere quegli ostacoli che gli impediscono di vivere a pieno la propria vita per come egli può.
Questa prospettiva, inevitabilmente, implica la rinuncia ad un pensiero dicotomico e ad un concetto molto caro a diverse psicologie, ossia che esista un modello unitario di sviluppo ottimale, i cui discostamenti debbano essere corretti. Alla luce di tutto ciò credo che si debba favorire un’apertura alla complessità del reale e della persona, dove il termine complessità non è da intendere come “complicato” e quindi difficile, ma al contrario come variegato, multiforme, come un insieme di elementi e di sfumature.

La psicologia è di fatto la scienza dell'umano e quindi non ha il mandato di escludere in funzione di una normalità possibile. La psicoterapia, ossia la declinazione clinica della psicologia come scienza, ha il compito di rintracciare insieme al paziente una “normalità” che sia per lui possibile (e non per me analista o secondo teorie oggettive), piuttosto che conformare tutti entro un unico e forzato percorso. Partendo proprio dall’unicità e dalla singolarità che caratterizza ognuno di noi, è importante aprirsi alle sfumature che inevitabilmente esistono: assumere il punto di vista dell'altro e osservare risorse, possibilità e vincoli partendo proprio dalla sua prospettiva, affinché si possano trovare, insieme al paziente delle nuove soluzioni di vita, che siano possibili e percorribili per lui, e non invece "sane" o “normali” per noi.

 

 

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